Testata: D - La Repubblica delle donne
Data: settembre 2004

Autore: Ortensia Visconti

Paura di votare
AFGHANISTAN A Kabul si preparano le urne, ma nelle province sudorientali la guerriglia dei talebani uccide per impedire le presidenziali. Diario di 48 ore passate con le Alpha troops americane incaricate di proteggere i seggi. E gli elettori

Uscite dai burqa e combattete! Vigliacchi! Vi nascondete come le donne!". Erano frasi come questa a rimbombare qualche settimana fa tra le montagne a nordest di Kandahar. I soldati americani le urlavano nei microfoni dei veicoli militari. In città il capitano Brian Peterson, delle Alpha Troops, smentisce divertito: "Ma diavolo chi vi ha raccontato...?". Fatto sta che alla base militare delle forze di coalizione di Kandahar non si parla d'altro. Soprattutto perché pare che per una volta la provocazione anti talebani abbia funzionato. "Li abbiamo snidati. Erano una ventina", racconta il soldato Brett Henry, 25 anni, ancora eccitato al ricordo. "I nostri mezzi erano bloccati in un sentiero tra le rocce, ci siamo trovati sotto il fuoco dei lanciagranate e dei kalashnikov. Miravano, i bastardi, e sapevano combattere. E' durata due ore e mezzo. Con loro c'era perfino un ragazzino che avrà avuto dodici anni, ha preso il kalashnikov e ci ha sparato contro. Lo abbiamo ferito. Ora sta più di là che di qua. In tutto ne abbiamo presi quattro, altri quattro li abbiamo uccisi". A quasi tre anni dalla sconfitta del regime talebano a opera degli Stati Uniti e dell'Alleanza del Nord, è evidente come il nemico, in realtà, non sia stato eliminato ovunque. Ayman Al Zawahiri, numero 2 di Al Qaeda, che in un video inviato a Al Jazeera ha addirittura parlato di "inarrestabile avanzata dei mujahiddin afgani. Uno dei loro obiettivi è far saltare le elezioni presidenziali, le prime in Afghanistan, programmate per il prossimo 9 ottobre, tre mesi dopo la data fissata in origine e già posticipata per ragioni di sicurezza (quelle parlamentari sono state rimandate addirittura al prossimo aprile). Se tutto andrà per il verso giusto, quel giorno i 23 candidati accreditati si sfideranno in una lotta che ai più appare impari essendo quello di Hamid Karzai, attuale presidente provvisorio e sostenuto dagli Stati Uniti, il volto di gran lunga più popolare. Quanto alle stime sul numero di persone che si sono registrate per andare a votare, oscillano fra i cinque e i nove milioni, su circa dieci milioni di aventi diritto. A rendere incerto il calcolo, secondo le Nazioni Unite che organizzano i seggi, contribuiscono migliaia di casi accertati di registrazioni multiple. Ma il problema vero è che la partecipazione civile all'evento è concentrata in poche aree del Paese. Solo nell'ultimo anno sono state oltre mille le vittime degli scontri tra i talebani e le forze di coalizione. E mentre a Kabul la zona delle ambasciate e dei ministeri è blindata, nel sud organizzazioni umanitarie come l'Unhcr o Médécins sans Frontières (che si trovava a Kandahar da 24 anni) smettono di operare: "E' triste lasciare l'ospedale che teniamo aperto da dieci anni", dice Kenny Gluck, direttore operativo dell'ong francese, "ma a giugno hanno ucciso cinque dei nostri uomini, i talebani continuano a minacciarci e il governo non fa niente per aiutarci". Gli 8000 soldati Nato che pattugliano le maggiori città saranno presto raggiunti da altre 2000 unità, ma buona parte del territorio afgano resta controllato da signori della guerra che posseggono milizie finanziate grazie al commercio di oppio ed eroina. Nel sud e nell'est del Paese, dove si crede si possano nascondere Osama Bin Laden e il capo talebano mullah Omar, vaste aree sono ancora terra di nessuno. Sulle montagne delle provincie di Kandahar, Oruzgan e Zabul la guerra contro i talebani non è mai stata vinta: si è solo trasformata in un conflitto senza fronti definiti, che le forze della coalizione, insieme alla milizia locale, tentano di contenere. "Usano tutte le tattiche della guerriglia", dice il sergente Joe Schooch, della Long Range Surveilance Division. "Colpiscono e scappano, oppure ti attirano nelle imboscate. Ma appena vedono le nostre forze aeree lasciano le armi e prendono le pecore. E tu come fai a combattere una guerra in cui il nemico improvvisamente scompare?". Questa mattina le truppe Alpha (una trentina di soldati in sette veicoli), nel distretto di Mianishin, al limite nordest della provincia di Kandahar, si preparano a ripercorrere il tragitto dove pochi giorni fa hanno subìto l'ennesima imboscata: "Questi posti sono così isolati che alcuni ci scambiano per soldati dell'armata russa", spiega il capitano Peterson, interrotto dai funzionari locali che lo tengono informato sullo sviluppo del censimento: "Il nostro compito è proteggere gli uffici elettorali e permettere alla gente di registrarsi per il 9 ottobre. Per farlo dobbiamo stabilire un contatto con gli abitanti, conquistarne la fiducia, difendere dai talebani chi ci chiede protezione". Negli ultimi tre giorni oltre 400 uomini sono arrivati nel distretto per farsi fotografare e registrare per il voto: a cavallo, in bicicletta, stipati su pick up carichi di armi. Si sono riuniti tra le mura della moschea, o addirittura in mezzo ai campi di oppio, e posano seri davanti alla macchina fotografica. A nessuna donna è stato permesso di partecipare. "Io farei anche votare le mie mogli", dice Abdul, "ma per la foto dovrebbero togliersi il burqa e tutti le vedrebbero. Non voglio che questi uomini vedano le mie donne". La postazione americana viene raggiunta da Satar, un miliziano il cui fratello è stato assassinato dai talebani. Da queste parti è considerato un eroe, uno che non ha paura, e della taglia che è stata messa sulla sua testa sembra infischiarsene. "E' venuto a piedi da Parle per dirmi che vogliono uccidermi", racconta Satar indicando l'uomo che ora se ne sta seduto con altri nel cortile di una casa di fango. È ancora buio, delle persone si distinguono a malapena i lineamenti: i visi pallidi dei soldati americani, barbe scure, turbanti. "Hanno ricevuto rinforzi dal Pakistan, sono almeno duecento", continua Satar rivolto a Peterson. "E ce l'hanno anche con voi". Vorrebbe avere le Alpha al suo fianco, progetta il piano di battaglia. Il comandante americano però è dubbioso: non ci sono altre forze Usa nel raggio di centinaia di chilometri. Satar insiste: "Abbiamo bisogno del vostro aiuto, delle vostre armi. Senza non ce la faremo mai. Ammazzeranno tutti quelli che non li sostengono. Nessuno andrà più a votare per la paura". Ventiquattro ore più tardi il convoglio delle truppe Alpha si arrampica sui sentieri tra le montagne, preceduto dai pick-up della milizia di Satar. Il deserto roccioso è interrotto da campi coperti dai papaveri rosa. I soldati sono tesi ed eccitati. Il sergente Schooch assume un'espressione seria quando mi dice: "A me basta non saltare su una mina, morire combattendo mi sta bene". Runkhe, vent'anni, è alla guida del veicolo del comandante. Si è sposato da poco. La foto della moglie, in posa accanto al suo figliastro, è attaccata al parabrezza. Parla poco e guarda fisso l'immagine. A un certo punto dice, arrossendo: "A tutti manca la propria moglie, la fidanzata... Vorrei bermi una birra con lei, ma mi sa che dovrò aspettare ancora almeno un annetto". Plummer spunta dal tetto del veicolo, dietro la mitragliatrice. Si è coperto il viso con una maschera: l'immagine di un teschio. Passando nei villaggi i bambini rispondono ai saluti degli americani e raccolgono le caramelle. Gli adulti, invece, rientrano in casa, o lanciano occhiate diffidenti, perché se a Kabul e nel nord del Paese i soldati stranieri rappresentano per molti la speranza di un futuro più stabile, qui l'ostilità dei civili si vede e si sente. E spesso non è immotivata: da queste parti gli errori dei militari Usa non sono infrequenti. Secondo le autorità afgane sarebbero diverse migliaia le vittime civili nelle aree in cui la caccia a Bin Laden e ai talebani non si è mai interrotta. Gli americani minimizzano, limitandosi ad ammettere qualche "incidente" isolato. Ma ora alla carneficina collabora anche l'alleato pachistano, come è accaduto il 9 settembre scorso in Waziristan, dove l'aviazione del presidente Musharraf per colpire un raduno di militanti di Al Qaeda ha ucciso 50 civili. Dopo tre ore e mezzo di viaggio s'intravede la gola dove gli americani hanno subìto l'imboscata. Scattano le sicure delle armi, le braccia tatuate si tendono, qualcuno tra i militari sceglie un cd di hard rock e lo mette al massimo. Il convoglio avanza lentamente fino a un piazzale circondato da una corona di montagne. In cima, si distinguono alcuni uomini. Sembra che stiano scappando. "Si muovono in gruppo, armati, hanno telefoni satellitari e portano turbanti bianchi. Molti sono stranieri, altri di queste parti", dice il comandante. Sifullah, che ha solo quattordici anni ma è già un miliziano, parla a bassa voce e getta occhiate rapide tra i monti tutt'intorno. "In questo momento ci stanno guardando... da là", fa un cenno con la testa verso alcune roccie. "Appena gli americani se ne saranno andati, verranno nelle nostre case e ci picchieranno. E' così che hanno ucciso mio fratello, a botte". Scende la sera. I veicoli si avvicinano uno all'altro, con le armi puntate in diverse direzioni. I mortai sono posizionati al suolo. Con i binocoli per la visione notturna i soldati della Long Range Division sorvegliano la casa di un capo talebano. E' a soli 100 metri dalla postazione. Dieci soldati, due miliziani e un interprete si preparano per l'irruzione. Si muovono nel buio, saltano i canali, sfondano le porte con pedate secche. L'uomo è già fuggito, lasciando in casa la sua famiglia. Il comandante Peterson si muove di casa in casa, raccoglie informazioni. I soldati si sparpagliano per catturare eventuali nemici. Ma dei talebani non c'è più traccia. "E' frustrante", si lamenta Sean Shirey, un ragazzone di 26 anni. "Si avvisano a vicenda. Oppure mentono. Dicono che non sono talebani e tu che fai? Che cosa puoi fare?". Altri veicoli della stessa unità vengono a sostituire la compagnia, e la nostra carovana riparte verso Kandahar. Sono dodici ore di strada sterrata, tutto è coperto da una finissima polvere bianca che non fa respirare. Al tramonto, sull'erba bruciata, ai margini della strada, sette corpi senza vita. Sono quelli di sette giovani afgani: gli hanno sparato alla nuca, da distanza ravvicinata. Stanno ancora sanguinando. Uno di loro ha la testa spaccata, probabilmente da un'ascia, e banconote pachistane buttate tutte addosso. "Erano andati a registrarsi per il voto. Vedi i soldi che gli hanno gettato addosso? Vuol dire che gli assassini non sono ladri, ma Talebani che puniscono chi ha intenzione di votare", sussurra un giovane interprete, sconvolto. Il numero dei civili uccisi dai talebani perché intenzionati a votare o perché lavoravano nell'organizzazione della macchina elettorale cresce di giorno in giorno, soprattutto nel sud del Paese. Bismillah arriva a piedi da un villaggio vicino. Gli chiedo se lui ci andrà a votare: "Nessuno di noi prenderà la tessera, abbiamo troppa paura dei talebani. Guarda questi poveracci", dice indicando i sette cadaveri. "Credi che ne sia valsa la pena?". Nessuno osa contraddirlo. I soldati si apprestano a raccogliere i corpi, ma hanno solo due body bag. Gli altri cinque li avvolgono negli impermeabili militari, chiusi con il nastro adesivo, e li caricano sui veicoli. Dalla radio una voce, coperta dagli spari di una mitragliatrice, gracchia allarmata. I talebani stanno attaccando la postazione lasciata stamattina. Tutti ascoltano in silenzio. Frustrati.