Testata: Il Venerdì di Repubblica
Data: febbraio 2005

Autore: Ortensia Visconti

Le ragazze di Herat, che si danno fuoco piuttosto che sposare chi le ha comprate
Tre alla settimana. Arrivano in ospedale ricoperte di ustioni. L'80 per cento muore. Nella provincia afgana regna la ribellione estrema. Al matrimonio forzato

Herat. Oggi era il giorno delle nozze, Mumtaz doveva sposare un cugino che l'aveva pagata alla sua famiglia l'equivalente di 1200 dollari. Invece si è alzata, ha aspettato che il padre s'inginocchiasse per pregare, si è cosparsa si cherosene e si è data fuoco.
Ora è coperta di bende nel reparto ustioni dell'Ospedale di Herat. Non ha più capelli né le labbra, il corpo è tutto ustionato. Respira male, ha poche speranze di sopravvivere. Ha 17 anni. Nelle dieci brande del reparto, altre giovani donne che, come lei, si sono date fuoco per sfuggire a un matrimonio obbligato. Accanto a ognuna, una suocera che taglia strisce di garza o un marito che non si allontana per paura che una confessione lo metta nei guai: "Devono stare più attente quando cucinano, guarda come può ridurti una pentola a pressione!" mormora uno di loro.
Ma sua moglie non parla, si vedono solo gli occhi gonfi tra le bende.
Qui, nell'Ovest dell'Afghanistan, l'autoimmolazione è una pratica diffusa: l'anno scorso, duecento spose ricoverate. La metà sono morte.
E la stima è per difetto perché, secondo l'Organizzazione per i diritti delle donne di Herat, nelle campagne moltissime vittime vengono lasciate morire a casa. "Ne arrivano tre a settimana, dai 13 ai vent'anni" racconta Noosh Afreen, dottoressa del reparto. "L'80 per cento non sopravvive. Ho ricoverato una ragazza di 14 anni che aveva intatti solo i palmi delle mani: l'avevano data in moglie a un uomo di 60 anni, sposato con figli".
In teoria, dalla caduta del regime talebano, in Afghanistan la condizione delle donne è cambiata. In pratica, almeno fuori Kabul, è rimasta quella di prima: a Herat, qualche mese fa, un gruppo armato ha attaccato e incendiato l'ufficio per la difesa dei loro diritti. E si vedono meno burqa per strada perché le donne non escono: solo le mendicanti o le vedove si avventurano fuori di casa. Queste prigionie diventano ancora più insopportabili se confrontate con le immagini proposte dalla tv, che mostra un nuovo Afghanistan finalmente rispettoso delle sue cittadine.
Ahbeda è in ospedale da quaranta giorni. All'inizio ha raccontato di aver tentato il suicidio perché il marito le impediva di guardare la tv. Poi la verità è venuta fuori: "Non potevo uscire. Mi trattava da schiava, mi vietava i rapporti con la mia famiglia. Ero sua perché mi aveva pagata. In tv le altre donne facevano tutto, erano libere. Nessuno pensava a me".
Nella tradizione buddista e indu, l'autoimmolazione è un antico rito legato alla trasmigrazione dell'anima in un nuovo corpo. Nel XIX secolo gli inglesi dichiararono fuorilegge l'usanza che, in India, imponeva alle vedove di buttarsi nel rogo funebre del marito. Ma in Afghanistan l'autoimmolazione non è un imperativo culturale, è solo l'ultima conseguenza della disperazione. C'è qualcosa di inspiegabile e misterioso nel gesto estremo di queste ragazze che si danno fuoco senza motivazione ideologica, politica o religiosa.
E solo nella provincia di Herat.
"E' un esempio che seguono perché qui succede continuamente. Non sanno come uccidersi altrimenti, né sanno che possono divorziare" dice Abazada, un'infermiera. "Non vogliono morire. Il fuoco è il loro grido d'aiuto" spiega Asifa Aimaq, psicologa. Molta autoimmolate, cresciute quando i talebani impedivano alle ragazze di studiare, sono analfabete. Ma Qazy Ghulam Nabi Harak, manager della locale Commissione per i diritti umani, racconta che altre sono rientrate dall'Iran, dove erano rifugiate, ma più libere: "Qualcuna non resiste a questa provincia chiusa, opprimente, o magari al matrimonio imposto con un contadino violento". Così è stato per Zahara Mohamedi: un giorno ha deciso che non ce la faceva più. A 18 anni, la sua famiglia l'aveva venduta, per il valore di 1300 dollari, a un lontano parente mai visto prima. Dalla città si è trasferita in campagna, dove il marito la batteva, le impediva di uscire di casa e di fare quei pochi minuti di strada che la separavano da sua sorella Mina, la minore, andata in sposa al cognato. Era trattata come una serva, prendeva ordini perfino da una bambina di undici anni. Allora, s'è versata addosso l'olio da cucina e ha annunciato che si sarebbe data fuoco. "Se non lo fai tu lo faremo noi" gli è stato risposto tra risa di scherno. Ha acceso un fiammifero e ora è qui. "Non mi importava della mia vita" confessa seria. "Fossi morta, sarei stata libera da lui, fossi sopravissuta, anche. Scappare? Ci aveva provato mia sorella, l'hanno ripresa".
Quel giorno, ricorda Zahara, era cosciente mentre bruciava. E' svenuta. La suocera le ha buttato addosso una coperta. Poi l'ha messa sul letto per sventolarla con un pezzo di carta. "Non voleva portarmi in ospedale" ricorda Zahara. "Anche mio marito si vergognava. Per fortuna è arrivata Mina: ha gridato al paese cos'era successo. Sono stati costretti". Sharifa, la madre, commenta: "Le mie figlie sono cresciute in Iran, dove eravamo rifugiate. Lì un marito del genere sarebbe in prigione. Ma chi ricostruiva il nostro Paese se non tornavamo?". Forse lo farà Zahara, che per ora si sente "brutta, infelice e senza futuro", anche se ha divorziato. "Spero che il mio gesto sia utile ad altre ragazze".
Mumtaz invece non ce l'ha fatta.
E' morta al tramonto.