Testata: D - La Repubblica delle donne
Data: novembre 2006
Autore: Ortensia Visconti

Kabul decadence
dopoguerra Nella capitale afgana, nonostante attentati e rapimenti, per migliaia di militari e funzionari internazionali il problema più sentito è la noia. Così per gli "expatriots" è nata una città parallela a luci rosse: prostitute, droghe, alcol e feste scatenate

"Questa finalmente è l'Asia senza complessi d'inferiorità". Così Robert Byron descriveva l'Afghanistan del 1933, nel suo La via per l'Oxiana. Un'impressione analoga potevano suggerire il Paese e i suoi abitanti anche tre anni fa, subito dopo la sconfitta del regime talebano. Poi, però, poco a poco sono arrivati gli stranieri: militari, mercenari, consulenti, impiegati delle società di ricostruzione, funzionari delle Nazioni Unite, diplomatici, giornalisti, prostitute. E oggi a Kabul gli occidentali comprano sigari e caviale, perfino pillole di ecstasy; le ragazze europee e americane si abbronzano in bikini ai bordi delle piscine, mentre oltre il muro di cinta i burqa nascondono quelle afgane. L'alcol è ancora vietato ma le feste, i bar e i ristoranti offrono tutto ciò che possa alleviare la noia e la tensione di una zona di conflitto. La comunità degli expatriots - alcune migliaia di persone - si è creata qui una propria realtà, alternativa, parallela e distante da quella afgana. Gente che guadagna 4000 dollari al mese, tax free, o addetti alla sicurezza il cui stipendio arriva fino ai 20 mila dollari. Gente che pagherebbe qualsiasi prezzo pur di riuscire a "distrarsi". Poco o niente è cambiato, in questo ambiente, persino dopo l'attacco kamikaze del 23 ottobre in Chicken street, la strada commerciale più frequentata dagli "internazionali", e dopo i primi rapimenti di cittadini stranieri (tre funzionari delle Nazioni Unite) a fine ottobre. "Le feste degli occidentali a Kabul sono come quelle degli studenti nei campus universitari americani", ci dice Dominic Medley, coautore di Kabul: the Bradt Mini Guide: "Ci trovi un misto di nazionalità e di gusti musicali. Sono feste organizzate per scaricare la tensione. Capita che ce ne siano anche tre a sera, malgrado il coprifuoco imposto dalle organizzazioni più importanti". A Kabul nel novembre 2001 c'era un solo ristorante, l'Herat, dove in una grande sala con lunghi tavolacci di legno mangiavano talebani e delegazioni di al Qaeda. Oggi Herat sta fallendo e tra le macerie delle case distrutte dalle bombe aprono ristoranti italiani, indiani, russi, thailandesi. In mezzo a greggi di pecore e carretti trainati da asini spuntano cartelloni pubblicitari: "Dopo un'eccitante giornata a Kabul, rilassati bevendo una birra nel più tradizionale giardino tedesco!". In cima alla lista degli artefici di questa pacifica esplosione c'è sicuramente Lalita Thongngamkam. Donna d'affari di 52 anni, da tempo segue la "carovana" delle Nazioni Unite aprendo ristoranti in tutte le zone di guerra. Lo ha fatto in Cambogia, East Timor, Somalia, Ruanda, Kosovo. E a Kabul, dove da Lai Thai si mangiano pesci e frutti di mare provenienti direttamente da Dubai. "In posti così non c'è competizione. Quando un Paese è nei guai, beh io comincio a interessarmene". Altri non si limitano alla ristorazione. Tom è un ex marine, e da due anni ha aperto un locale di prostitute cinesi. Dentro, la moquette rosso sangue e i vetri oscurati creano un'atmosfera accogliente e dimessa illuminata dai bagliori di una grande tivù e da lucine colorate a intermittenza. Un'ascia è appesa dietro il bancone del bar. Ci sono sette ragazze, e mentre alcune di loro cantano il karaoke, fuori, figure coperte dal burqa sfrecciano nel crepuscolo per rientrare prima del buio. Le ragazze sono arrivate dalla Cina con visti forniti da funzionari corrotti e resteranno per sei mesi chiuse nel locale, senza mai uscire. "E' pericoloso", dice Lulu che ha 18 anni e un senso della realtà tutto suo, "per strada è pieno di afgani". Lei è qui da cinque mesi, e guadagna 50 dollari l'ora, 100 per tutta la notte: "In Cina non ti pagano in dollari, e anche se qui divido i guadagni con Tom, al ritorno avrò abbastanza soldi per sistemarmi". La polizia protegge l'entrata del locale e impedisce l'ingresso agli afgani. In cambio, Tom paga in denaro o in natura: "In città ci sono centinaia di prostitute", racconta mentre le ragazze ballano insieme a due giovani occidentali. Una di loro scompare con un uomo, un'altra tira le freccette contro un bersaglio e sorseggia una Corona. "I locali tollerano", continua l'ex marine: "Noi gli rivendiamo l'alcol che loro non possono comprare, e che poi smerciano al mercato nero". Mentre chiacchieriamo, Tom tira fuori dalla tasca un coltello militare e ci infilza un pezzo di hashish. Poi alza la voce per sovrastare la musica: "E' vero, noi occidentali portiamo il bene e il male in questi posti. Ma se dovessimo andarcene ci riporteremmo a casa sia l'uno che l'altro. E io amo questa città". Verso la fine degli anni '60 e l'inizio dei '70, l'aristocrazia e i ricchi mercanti afgani avevano fatto costruire i bar nei giardini delle loro case, tra saloni e piscine. A quei tempi Kabul era considerata un centro cosmopolita. Oggi, dopo vent'anni di guerre, quelle ville vengono affittate a organizzazioni e società straniere. "Lì dentro viene celebrato uno stile di vita che ha un effetto molto negativo sui nostri giovani e non solo", ci dice Fazal Ahmad Mahnawi, vicepresidente della Corte Suprema: "Se quelli che prendi a modello bevono, in un Paese in cui è vietato farlo, finirai anche tu per usare l'alcol, e lo farai in modo estremo. E questo causa non solo le risse, i furti, gli incidenti stradali, ma comincia a distruggere le relazioni familiari. E' un tipo di libertà che gli afgani non riusciranno a digerire facilmente". Alcune delle prostitute afgane di Kabul lavorano da casa, con i telefoni cellulari. Molte in strada, col burqa: tambureggiano il suolo con un piede, o alzano il mignolo della mano e lo fanno ondeggiare. "Ce ne sono centinaia per le strade della città", dice Zarghuna Hashemi, portavoce dell'associazione Rawa che si occupa di diritti delle donne. "Ma non sono le solite prostitute, quelle che c'erano prima della guerra. Queste donne sono il prodotto del cambiamento della nostra economia negli ultimi tre anni". Alcune vivono nei bordelli (secondo Rawa solo a Kabul ce ne sarebbero una trentina) e dividono i loro guadagni con i mariti o i protettori. Leila arriva al nostro appuntamento nascosta dal burqa e accompagnata dal figlio di otto anni, che fa sedere in mezzo, sul sedile posteriore dell'automobile che attraversa la città senza fermarsi, "altrimenti qualcuno potrebbe chiedersi cosa mai ho da raccontarvi", dice. A casa ha altri tre bambini, e in tasca un diploma da infermiera: suo marito, impiegato del governo per 38 dollari al mese, non le permette di lavorare in ospedale. Potrebbe incontrare altri uomini. "Ai tempi dei talebani ricamavo", racconta Leila, cercando sempre di non mostrare il viso. "Tre anni fa, quando sono arrivati gli occidentali, i prezzi sono saliti. Solo la casa ci costa 200 dollari al mese, per le altre spese se ne vanno altri 400. A mio marito dico che vado al salone di bellezza a truccare e acconciare le donne per i matrimoni e invece...", esita. Poi riprende: "Tante mie amiche fanno come me. Ci contattano sui telefonini e andiamo a casa loro. Beviamo alcol e in un'ora guadagniamo fino a 100 dollari...". Malgrado l'ammirazione per lo stile di vita occidentale (Leila lo considera infinitamente migliore, se non altro perché "si fanno più soldi") la sua vita continua a scorrere parallela a quella degli europei e degli americani: "Con uno straniero?", domanda ridendo, "no, non lo farei mai: è peccato. Ha un'altra cultura, un'altra religione. I miei clienti lavorano per le Ong o per il governo, ma sono tutti musulmani". Poco a poco Leila prende coraggio e finalmente solleva il burqa, ma solo per sussurrare che prima era più bella, e che da quando ha cominciato questo lavoro è ingrassata, non riesce a smettere di mangiare e bere alcol. "Alcune mie amiche hanno mariti che guadagnano più del mio e si sono comprate già la macchina facendolo con gli uomini. Due hanno mandato i figli a studiare a Londra. Hanno accumulato tanti soldi e peccati che ora possono andare in pellegrinaggio alla Mecca!". "Ci avevano detto che la situazione sarebbe cambiata per noi e soprattutto per le nostre donne", dice Ahmad Bassir, corrispondente di radio Free Afghanistan da Herat, "ma non è successo. Solo in questa provincia nell'ultimo anno 178 donne si sono date fuoco, cento sono morte. Molte più che durante il regime talebano". Intanto, con le prime stime del ministero della sanità sull'Aids (2-300 casi) arrivano anche le critiche al neoletto governo di Hamid Karzai, accusato dai mullah di non riuscire a far portare altro in Afghanistan che alcol e prostitute. L'imam Obaidullah Rahman, che ogni venerdì predica contro "la decadenza", è perentorio: "La gente gli si rivolterà contro, gli ricorderanno che alcol e prostituzione sono vietati dalla nostra Costituzione". "Effettivamente è un problema", ammette il ministro degli esteri Abdullah Abdullah. "Dobbiamo riuscire a preservare la nostra cultura, e non è facile se ce ne viene di fatto imposta un'altra. Ma se potessimo ricevere più aiuti internazionali, che facilitino lo sviluppo del sistema educativo, i servizi ai cittadini, la tutela dei diritti umani, allora le cose potrebbero migliorare per tutti...".