Testata: L'Indipendente
Data: 19-08-2004

Autore: Ortensia Visconti

Diario da Kabul 5

Un'altra sezione dell'unità sotto il comando di Peterson ci raggiunge mentre Satar insiste per tornare a Kandahar a far riparare il pick-up: "C'è una taglia sulla mia testa! Non posso permettermi di spingere il catorcio se mi attaccano." Sono 9 ore di strada sterrata (che diventeranno 18), ma il comandante non può rischiare la vita di Satar, minacciato perché collabora con gli Stati Uniti. E lui è irremovibile: "Non attaccheranno mai, non possiamo aspettarli per sempre." Riluttanti, indecisi, riprendiamo il convoglio. L'unica parola per descrivere il viaggio è: soffocante. Una polvere fina s'insinua ovunque, i meccanismi s'inceppano, compreso quello della respirazione. La strada è così difficile che è faticoso stare seduti, la notte insonne si fa sentire, la testa mi cade di lato e il risveglio è brusco. L'angolo della scatola delle munizioni mi entra in un occhio ferendomi un sopracciglio. Sto per dire qualcosa, un lamento qualsiasi, ma la radio mi precede: "Ci sono quattro cadaveri sulla strada." Il convoglio si blocca bruscamente. Il sole tramonta dietro le montagne e la luce cala sul silenzio dei giovani soldati che scrutano la morte. In realtà sono 7 corpi, freddati alla nuca a distanza ravvicinata. Sono lontani tra loro, come se avessero tentato di scappare. Uno ha la testa sfasciata, forse da un'ascia e il terrore negli occhi. Jawed Mirwais, l'interprete, dice che sono povera gente, che poco lontano c'è stata la registrazione per il voto: "Il denaro pakistano buttatogli addosso vuol dire che non sono ladri, gli assassini. Ma talebani che puniscono quelli che hanno intenzione di votare." Poi Jawed si mette a piangere: "Non vedo più niente, ho solo nero davanti agli occhi. Non avevo mai visto..." Si prende la testa tra le mani, sconvolto. Il capitano passa da un corpo all'altro, si guarda intorno preoccupato: "Non dovremmo stare qui. Sono ancora intorno." Il dottore conferma che sono morti da meno di due ore. Ancora sanguinano. Un pick-up appare sul fondo della strada. Viene bloccato con prontezza, dentro c'è un uomo con quattro donne in burqua. "Controlla se sono davvero donne", mi chiede Peterson, mentre interroga il conducente. "Salamelekum", dico, affacciandomi dentro il veicolo. "Salamelakum" mi risponde la voce di una donna. "Salamelekum", continuo rivolta a un altro burqua che mi risponde e continuo così sentendomi cretina. Quando torno a riferire, Bismillah, il marito fortunato, sta affermando che lui certo non voterà: "Siamo in molti, qui. Non prendiamo la carta elettorale perché abbiamo paura dei talebani. Guardate quei poveracci... Non ne è valsa la pena." Nessuno osa contraddirlo.
"Che facciamo ancora qua?" chiedo al capitano.
"Aspettiamo che dalla base ci dicano cosa fare dei cadaveri. Non possiamo lasciarli."
Mi immagino il resto del viaggio sballottata accanto a uno di loro e tento di chiudere anche lo spiraglio del grottesco. Non posso permettermi nessuna emozione. I soldati però non ci riescono: "Io? E perché non lo perquisici tu?" Uno per uno si tirano indietro: "Dovrei stare a casa a mangiare bistecche e a bere birra con mia moglie", dice Runkhe serio "Non qui a giocare coi morti." Scoppiano a ridere. Risate convulse, di quelle che non si possono fermare perché non c'è altro modo di esprimere come ci si sente davanti a questo, se sei un soldato. "Jawed può piangere", sussurra il comandante "Dopo dovrò parlare con loro." John, un latino-americano timido e intenso, si infila i guanti di lattice e fruga uno dei corpi. C'è una piccola scatola da tabacco con una pietra rossa sul coperchio, un testo scritto a mano che Sweet, l'altro interprete, dice essere quello di una canzone d'amore afghana, la ricetta di un medico che gli prescriveva antibiotici.
"Dovete caricarli sui veicoli", urla Peterson accanto alla radio "Li mettete nei sacchi mortuari e li legate sui cofani."
"Ne abbiamo solo due, di sacchi”, risponde il sergente Schooch. "Possiamo metterli negli impermeabili militari e assicurarli col nastro adesivo."
E' sceso il crepuscolo. Sean Shirley, della long distance surveillance division, duecento chili di muscoli e la faccia da duro si accinge all'operazione. Dopo qualche minuto è piegato in due un po' più in là e vomita. Uno dopo l'altro i soldati obbediscono al comandante. Riluttanti. Sollevano i corpi avvolti nella plastica, che lasciano scie di sangue dietro di loro. "E' come portare un peso morto", dice Gordon, convinto. Le risate sono inarrestabili. "Perché secondo te cos'è?" Lo sfottono gli altri. Ma sono interrotti da una voce allarmata alla radio: "Ci stanno attaccando! Ne distinguo una ventina." Grida il tenente Colette dalla postazione che abbiamo lasciato da poche ore. Una scarica di mitragliatrice rimbomba nel silenzio che è calato improvvisamente. I soldati sono radunati intorno al veicolo e aspettano. Il sudore cola sulla fronte di Schooch: "Maleddetti. Hanno aspettato che partissimo. "Dobbiamo andare a aiutarli, sono solo in quindici." "Arriveremo tra sette ore", commenta Peterson teso. Continuano a sparare senza interruzioni e ti chiedi dove vadano a finire tutti quei proiettili se non nei corpi di uno dei ragazzi con cui abbiamo fatto colazione stamattina. O in quelli dei talebani.
Un urlo proveniente da un altro veicolo ci allarma. "Il dottore!" gridano. "Che succede?", chiede il comandante. "Stavamo caricando un corpo e si è chiuso il portello... Credo che Gordon si è rotto un braccio, o entrambi", riferisce John. La situazione non è più credibile, penso, mentre qualcuno lascia cadere un cadavere avvolto in un poncho militare davanti al finestrino del conducente. E' buio. Una torcia ne illumina il braccio che scivola fuori e indica il vuoto. Il capitano Peterson segue il mio sguardo e non c'è bisogno di dire molto: qui la guerra non è mai finita.

Box
5 Maggio: 2 occidentali della Global Security che lavoravano per l'organizzazione delle elezioni presidenziali sono uccisi nella provincia di Nuristan insieme ai loro interpreti.
8 Maggio: 5 afghani sono feriti in un'esplosione nella provincia di Nangarhar.
10 maggio: 2 afghani dello staff elettorale sono feriti da un'esplosione nella provincia di Kunar.
21 giugno: Un veicolo elettorale è attaccato da 4 uomini armati e un componente delle Nazioni Unite rimane ferito nella provincia di Kandahar.
26 giugno: 3 donne dello staff per il censimento in previsione del voto sono uccise e altre 10 persone ferite in un attacco nella provincia di Nangarhar.
5 Luglio: 1 uomo è gravemente ferito in un attacco allo staff elettorale nella provincia di Kandahar.
8 Luglio: Un'esplosione vicino a un veicolo elettorale uccide 2 uomini e ne ferisce 4 nella provincia di Nangarhar.
24 luglio: Nella provincia di Uruzgan, 1 membro dello staff elttorale è ucciso da un proiettile mentre al volante della sua motocicletta.
28 Luglio: Un'esplosione in una moschea utilizzata come seggio elettorale uccide 1 civile e ne ferisce 7, nella provicia di Ghazni.
30 Luglio: Un convoglio elettorale è attaccato nella provincia di Uruzgan: 3 feriti.
6 Agosto: quattro veicoli sono distrutti, 2 persone uccise e altre 2 ferite in un attacco a un convoglio elettorale, nella provincia di Uruzgan.