Testata: L'Indipendente
Data: 13-08-2004

Autore: Ortensia Visconti

Diario da Kabul 1
Afghanistan, tre anni dopo.

Quando il volo dell'Ariana Airlines decolla da Istanbul  sembra un budino sottoposto a elettrostimolazione; pensi che almeno un pezzo si staccherà e Kabul è ancora lontana. Mi tornano in mente le carcasse degli aerei della stessa compagnia intorno all'aeroporto della città appena abbandonata dai talebani e i crateri delle bombe sulla pista d'atterraggio, mentre fisso lo stuart che tenta di estrarre una mascherina per l'ossigeno da sopra il suo sedile. Non ci riesce.  Continua le dimostrazioni di sicurezza senza la mascherina e si scorda di menzionare il giubbotto salvagente. Con una mano tasto sotto la mia poltrona e non c'è niente. D'altronde quanti mari ci saranno tra la Turchia e l'Afghanistan! Nessuno, mi dico, ma per eccesso di zelo cerco una cartina nella tasca del posto davanti al mio e ci trovo un foglio plastificato: STATE LONTANI DA MINE, GRANATE, MISSILI E BOMBE INESPLOSE. I testi, accompagnati da piccole foto a colori, ricordano i 1300 chilometri quadrati di territorio minato e i 100 afghani che ne rimangono vittime ogni mese. Se fortunati sono creature che ti abitui a vedere aggirarsi  per le città senza niente da fare, con una gamba, una stampella e l'andatura disarmonica.
Intorno ci sono solo donne (gli uomini sono seduti in fondo al veicolo) e alcune di loro piangono, si truccano gli occhi e poi piangono ancora. Ajesha, oltre il corridoio, ritorna a casa dopo tredici anni di esilio. E' difficile capirsi perché parla dari e tedesco, tiene a bada due bambine piccole e piange. Sabria, una nipote quindicenne, ci viene in aiuto: "Parte della nostra famiglia è scappata in Germania, e oggi torniamo tutti insieme", indica una decina tra donne e bambini. "Io non mi ricordo del mio paese ma la mamma e le zie hanno riconosciuto una attrice famosa negli anni sessanta, è seduta in prima classe e anche lei sta tornando indietro." Poco a poco le ragazze giovani scompaiono nei bagni in blue jeans e scarpe da ginnastica  per riapparire  con lo shalwar kamiz  (una lunga camicia indossata sopra dei pantaloni), mentre le mamme s'infilano  scarpe lucide e nuove con i tacchi alti. I loro gesti diventano più femminili, i capelli di alcune scompaiono sotto i veli: "...ma al trucco, lo smalto e le scarpe alte non ci ho mai rinunciato", sussurra Jameela, che torna da una visita alla famiglia in Turchia "nemmeno con i talebani. Sotto il burqua portavo tutti i colori possibili."
Sotto, le montagne afghane, rosse come la terra. Non c'è niente tra quelle montagne, nessuno, finché appare il deserto: il colore di Kabul. In piedi c'è poco, lo vedi anche dall'alto, ma i perimetri degli edifici e l'effetto groviera dei muri superstiti si estendono fino al limite della corona di monti... Kabul è monocroma, viva, impassibile di fronte alle continue disgrazie. D'un tratto ricordo che è una delle città che amo di più.
All'arrivo c'è un gruppo di uomini vestiti con eleganza che aspettano l'attrice famosa, gli altri (sempre uomini) mi guardano avidi e curiosi. Ho un momento di debolezza e mi sento una di loro: abbasso lo sgardo, non lo fisso su nessuno, dissimulo il mio corpo tra i vestiti che sento improvvisamente larghi, mi vergogno dei blue jeans e della testa scoperta. Le mie orecchie sono armi di seduzione micidiali, penso, tentando di coprirle con i capelli. Ora le loro occhiate mi sembrano accusatorie. Ma dura un'attimo. Ritorno in me e li fisso con durezza, allora sono loro a guardare altrove.
L'unico  rullo per i bagagli sembra girare a manovella ma l'atmosfera è quella di un vero aeroporto: controllo passaporti, timbri sui visti e facchini con piramidi di valigie sui carrelli. Perfino un "Welcome to Kabul" e un mezzo sorriso da parte di un agente in divisa. L'ultima volta erano Kalashnikov, continue esplosioni, corpi  e veicoli carbonizzati.
Una donna mi avvicina  chiamandomi per nome. Non la conosco. Lei ride e mi mostra una mia fototessera: "Me l'ha data Faisal, ti aspetta fuori."
Faisal era il mio interprete nel 2001, durante la guerra. A stento mi trattengo dall'abbracciarlo, rimango composta, mentre la gente ci fissa curiosa. "Sei ingrassato ancora" gli dico. Lui annuisce, contento. "Com'è la situazione preelettorale?", continuo. "Tesa", risponde, mentre avvia la macchina verso la strada in cui Hamid Karzai è appena scampato all'esplosione di due bombe piazzate sul suo tragitto: una in una motocicletta e l'altra nascosta dentro il carretto di un fruttivendolo ambulante.

Sul voto di ottobre la minaccia talebana.

L'Afghanistan si prepara ad affrontare le prime elezioni democratiche della storia del paese. Il prossimo 9 ottobre i 23 candidati accettati nella lista elettorale si sfideranno in una lotta che ai più appare impari: Hamid Karzai, presidente provvisorio sostenuto dagli Stati Uniti, è senza dubbio il candidato più popolare. All'opposizione Qanooni, ex ministro dell'interno e dell'educazione, di etnia tagika, la più rappresentata nel nord del paese. Nella lista c'è anche il nome di Massouda Jalal, una pediatra di 41 anni, diventata un idolo tra i giovani e le donne.
Le elezioni, che dovevano avvenire lo scorso giugno, sono state rimandate per ragioni di sicurezza. I talebani contuinuano a terrorizzare e uccidere i futuri elettori, considerando il processo elettorale come una "crociata" degli Stati Uniti per dominare il mondo islamico.
Gli 8000 soldati NATO che pattugliano le maggiori città saranno presto raggiunti da altre 2000 unità. Ma le forze NATO non arriveranno nel sud e nell'est del paese, le zone più a rischio. "Siamo spaventati", dice Rahim, un agricoltore "Tutta la campagna e parte del paese è ancora sotto il controllo talebano. Lì la gente non ritira la carta elettorale; e molti neanche sanno che si vota."