Testata: L'Indipendente
Data: 31-08-2004

Autore: Ortensia Visconti

Diario da Kabul 6
Dei Buddah rimangono solo i pezzi.

Bamiyam- Da Kabul sono nove ore di strada sterrata. Le montagne desertiche o di roccia rossa, grigia e viola scuro s'incastrano in un paesaggio intoccato, se non per villaggi o veri e propri castelli di fango e per i carriarmati. Sono carcasse abbandonate con cui gli afghani hanno imparato a convivere: uno è il supporto alla diga del fiume che costeggia la strada, un altro è un'immenso vaso per i fiori (gli uomini afghani hanno una grande passione per i fiori che coltivano, o per quelli di plastica con cui decorano i manubri delle biciclette), un terzo ha il cannone che fa da ponte. Sono almeno dodici lungo la strada e un genio della comunicazione ci ha dipinto sopra: "Afghan tourism Association, Bamiyam Hotel".
Continuo a ripetere all'autista di non uscire dal percorso battuto, ma lui evita le buche e io incrocio le dita. Questa zona è stata territorio di guerra per i russi e i mujaeddin, poi per i talebani e gli hazara, discendenti dell'armata di Gengis Khan. E' ridicolo pensare alla quantità di mine e di ordigni inesplosi che la bellezza di queste montagne ancora nasconde. Penso che forse serviranno a proteggerle e subito mi pento, vedendo l'ennesimo ragazzo all'entrata di un villaggio sorretto da una stampella. Aji ferma la macchina, scende e ci gira intorno. "Abbiamo bucato", dice sereno, si china e svita i bulloni del pneumatico, per poi farlo rotolare verso un ragazzino che lo rattoppa istanteneamente. Bucheremo altre due volte prima di raggiungere le statue dei buddha del Bamiyam.
Il giorno della presa di Kabul, nel novembre 2001, quando la città era ancora terra di nessuno e i giornalisti si arraffavano scartoffie nei covi abbandonati dagli uomini di Al Quaeda, insieme a un collega abbiamo trovato dei documenti sulla distruzione delle gigantesche statue del terzo e quarto secolo AC che impressionavano i viaggiatori della via della seta. In origine erano dipinte in blu e oro e rappresentavano il punto focale di un complesso intrico formato da più di ottocento grotte, oltre a templi e monasteri. Dai  documenti si capisce che i Talebani in principio erano restii a distruggere un tale patrimonio, ma varie riunioni con delegazioni straniere di Al Quaeda sono state sufficenti al Mullah Omar per definire i buddha "anti-islamici". "Tutto cambia, niente è permanente", dice il credo buddista e cerco di immaginarmi le cinquanta vacche sacrificate dai talebani per la cerimonia di distruzione, e i vari personaggi illustri del regime che sono arrivati in elicottero per assistervi. "Quel giorno ero a Roma con sua maestà Zahir Sha", raccontava ieri il ministro della cultura Raheen Makhdoom "Quando il re ha visto le immagini  in televisione gli è salita la pressione e abbiamo temuto anche per lui."
Oggi la domanda è: che ne sarà di quelle rovine? A Kabul mi è capitato di leggere un'intervista a un erudito archeologo, Zemaryalai Tarzi, attualmente professore di archeologia orientale all'Università di Strasburgo, scoprendo che è la domanda che si sono posti intellettuali, ministri, unesco e finanziatori buddisti miliardari in una serie di conferenze negli ultimi tre anni. Mentre il presidente provvisorio Hamid Karzai ha definito la ricostruzione un "imperativo culturale", Makhdoom afferma che: "primo, costerà una fortuna e secondo sarà inutile. Sono sicuro che i turisti vorranno vedere quello che i terroristi e i talebani hanno fatto a quelle statue." Mi dico che non erano un fatto simbolico, ma bello. Mi dico anche che non si riscrive la storia, mentre la jeep si addentra in un paesaggio sempre più profondamente isolato, puro, meraviglioso. C'è un villaggio che ha il colore del deserto in mezzo a una vallata e sembra fantasma, forse è abbandonato per quanto è immobile, poi due donne hazara escono da una casa con brocche per l'acqua sulla testa. Portano vestiti  su pantaloni di colori intensi: verdi, rosa ciclamino, rossi, turchesi. Hanno la testa coperta e sulla strada si affiancano ad altre due donne che tengono il burqua sollevato per non cadere. I volti Hazara sono quasi cinesi, o mongoli e la loro è una delle etnie (ce ne sono tredici, in Afghanistan) più discriminate. In realtà qui l'atmosfera è più serena che altrove. Ci si scorda della "security", dei "bad guys", delle granate e la registrazione per il voto femminile è la più alta nel paese.
Appaiono all'improvviso. Sono molto di più di quello che immaginavo e mi aspettavo molto da due grossi buchi su una montagna. L'atmosfera diventa mistica sotto il cratere, ancora ingombro di macerie e pezzi delle tuniche elleniche delle statue, ricordo del passaggio di Alesssandro Magno. L'immensa parete d'argilla rosata e forata dalle grotte fa eco ai rumori della valle: mucche che muggiscono, bambini che si chiamano giocando per i campi di patate, la solita artiglieria leggera che mi assicurano essere solo un addestramento. Immediatamente so che ricostruirle sarebbe assurdo. E inutile. "Non sarà naturale ma ne darà un'idea", dice Daud, uno studente; "Dobbiamo farlo per riavere l'attenzione del mondo. E tanti turisti", azzarda Mohammed Hussein, che ha un negozio di alimentari. Mohammed Nassim, dentista, trova un compromesso: "Una la ricostruiamo per ricordarne la bellezza, l'atra no per ricordare la stupidità dei talebani." Tutti sono d'accordo che i cinquanta milioni di dollari stimati per la ricostruzione sarebbero più utili altrove, nel paese. Mi arrampico tra le grotte: alcune sono scolpite e decorate, altre annerite dai fuochi dei profughi hazara, che le hanno abitate dopo la caduta dei talebani. C'è ancora una famiglia, tre bambine e una donna che tesse un tappeto mentre gli uomini sono nei campi. Mi chiedono soldi, sono poveri, vivono in uno dei posti più belli del mondo. Dall'alto vedo un gruppo di uomini impegnati in degli scavi. Li raggiungo e scopro che sono una spedizione a seguito dell'archeologo Tarzi. Stanno cercando di ritrovare un quarto buddah, sdraiato sul letto di morte, lungo oltre trecento metri. Ne parla un pellegrino cinese del settimo secolo nei suoi racconti di viaggio. C'è tanta di quella roba, qui sotto", dice il professore, "solo ieri abbiamo trovato un'altra testa a grandezza naturale... Delle statue non mi occupo più io..." Fa una pausa "... Dopo che i talebani hanno ucciso i miei "bambini" sono diventato un mujaeddin del patrimonio artistico, ma se li ricostruiamo bisogna prima rifare il naso alla sfinge e le braccia alla Venere di Milo. Oppure li facciamo a Las Vegas, lì si copiano un sacco di cose."

BOX, Un patrimonio in vendita

E' piuttosto diffuso che il patrimonio culturale afghano venga svenduto all'estero. Pezzi dei Buddah del Bamiyam e degli affreschi che coprivano le pareti delle grotte sono già passati attraverso il Pakistan nelle collezioni private di mercanti intorno al mondo. "E' una questione di sopravvivenza", dice un antiquario "So che è importante per il patrimonio afghano, ma non possiamo mangiare monete d'oro e non ci saranno utili da morti." La città di Bamiyan ha sofferto particolarmente sotto il regime talebano, danneggiata a causa della dura resistenza Hazara. Le centocinquanta famiglie rimaste senza casa che si erano rifugiate nelle grotte, oggi hanno ricevuto lotti di terra per costruirci nuove case. Ma il fumo ha annerito le pareti e gli affreschi, come i Buddha, non si vedono più.